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Scenari western, immagini horror, ritratti di donne: le locandine cinematografiche ripropongono le scene o i volti più significativi delle pellicole più famose. Il rapporto tra il cinema e la pittura è molto complesso e i manifesti cinematografici, che spesso sintetizzano un film in una sola immagine plateale, ne sono l’esatta espressione.

La mostra di locandine cinematografiche “Hecho en Cuba” (fino al 29 agosto al Museo del Cinema di Torino – Via Montebello 20) ci ha permesso di ammirare opere di veri e propri artisti di grande talento che, attraverso le loro opere, concorrono a creare l’immagine di un film, contribuendo al suo successo.
Ma prima di trovare la loro espressione nell’universo cinematografico i manifesti furono adibiti alla reclamizzazione di prodotti, marche, eventi e istituzioni.
Gli antesignani dei manifesti possono essere considerati i graffiti presenti nei muri delle città romane e testimoniati dai ritrovamenti effettuati a Pompei, ma solo con la diffusione della stampa a caratteri mobili, messa a punto da Gutenberg nel XV secolo, appaiono le prime affissioni. Si tratta prevalentemente di documenti privi di illustrazioni e dalla scarsa efficacia comunicativa, vista la limitata alfabetizzazione, che annunciavano proclami reali, decreti, fiere e sentenze. Solo con le rivoluzioni industriali, con la conseguente produzione di massa delle merci, e il miglioramento della scolarizzazione negli stati post rivoluzionari si ha la creazione dei manifesti così come li conosciamo oggi.
A Parigi, nella seconda metà dell’800, nasce il manifesto moderno, mezzo di informazione, di comunicazione culturale o di propaganda pubblicitaria in cui i fini comunicativi, sostenuti per oltre un secolo dalla tecnica di stampa cromolitografica, diventeranno indissolubili dagli esiti estetici con risultati in alcuni casi talmente alti e innovativi da essere menzionati tra i capolavori della storia dell’arte.
Tra le figure più importanti per la nascita del manifesto moderno possiamo ricordare  Jules Chéret e Henri de Touluse-Lautrec.
Jules Chéret (Parigi, 1836 – Nizza, 1932) è considerato il padre del manifesto moderno, nel suo lavoro la tecnica delle macchine di stampa inglesi sposa la creatività della pittura francese e soprattutto le istanze rivoluzionarie dell’impressionismo. Nel corso degli anni Chéret ebbe una clientela vastissima composta da cabaret, teatri d’opera, caffè concerto, circhi , parchi divertimento, gallerie d’arte, ma anche giornali, grandi magazzini e ditte commerciali, fino ad arrivare, al termine della sua carriera, a un catalogo di 1069 opere.
L’importanza di Chéret non risiede esclusivamente nel carattere di precursore della grafica pubblicitaria a colori e nella sua elevata produzione, ma anche e soprattutto all’utilizzo di un  nuovo stile basato su un rapporto tra immagine e testo.
Nelle sue opere il testo perde il proprio valore didascalico e descrittivo per assumere un maggior rilievo decorativo ed estetico. Inoltre un’altra fondamentale intuizione di Chéret, e che segnerà indelebilmente il mondo della pubblicità, consiste nell’associazione del prodotto da pubblicizzare con la rappresentazione della donna. La figura femminile, dai tratti post-impressionisti e spesso rappresentata in movimento, ha lo scopo di far convergere l’attenzione dell’osservatore, attratto dalla vivace scelta cromatica.
Come già accennato la figura di Toulouse-Lautrec riveste un carattere fondamentale nella storia del manifesto pubblicitario moderno. Innanzitutto a livello tecnico. Egli abbandonò le tecniche impressioniste per attingere a piene mani dallo stile giapponese, pur rimanendone costantemente lontano dai soggetti tipici. Manifesto simbolo può essere considerato quello raffigurante l’amico cantante Aristide Bruante, con un uso spregiudicato dell’inquadrature che deriva, attraverso la mediazione di Degas, dalla fotografia. Altro manifesto che ben sintetizza l’innovazione e il livello artistico dell’opera di Lautrec e quello creato per l’inaugurazione del “Divin Japonais” (un locale notturno parigino) il quale coglie di tre quarti le figure in primo piano e subordina sullo sfondo quella che dovrebbe essere la vera protagonista, la cantante Yvette Guilbert, il cui riconoscimento è affidato esclusivamente ai lunghi guanti neri. Si tratta di una scelta  che introduce un principio che trova massima espressione nella comunicazione pubblicitaria contemporanea: comunicare il marchio e, contemporaneamente, un sentimento di appartenenza a un’elitè elegante e raffinata, piuttosto che mostrare ed evidenziare il prodotto offerto.
Il novecento vede l’influenza dell’Art Nouveau nella grafica dei manifesti e grazie ad artisti come Aubrey Berdsley (Brighton, 1872 – Mentone, 1898) il testo diventa sempre più parte integrante dell’immagine, fino a confondersi con questa. Un esempio significativo di tale tendenza è il manifesto Tropon, creato nel 1899 dal belga Henry Van de Velde nel quale le figure umane per la prima volta assenti, vengono sostituite da un disegno astratto di cui è parte integrante il nome del prodotto reclamizzato.
In Italia la storia del manifesto moderno, commissionato dall’industria, si identifica con il lavoro delle milanesi Officine Grafiche Ricordi. Nell’atelier Ricordi costituitosi nel 1896 lavora uno straordinario gruppo di artisti, diretto da Adolfo Hohenstein, fondamentali nella storia della grafica italiana tra i quali possiamo ricordare  Cappiello, Metlicovitz, Sacchetti, Terzi, Mauzan, Nomellini e Laskoff. Si devono  a loro storici manifesti di imprese importanti come La Rinascente, Campari, Generali, ma anche teatri come la scala di Milano tutti ispirati allo stile libertye caratterizzati da soggetti allegorici e mitologici.
A Torino si distingue la figura di Abelardo Zucchi, pittore specialista in arti grafiche e cromismo. Si forma all'Accademia Albertina di Torino e lavora nei principali atelier torinesi del periodo: l'Atelier Butteri, l'industria grafica Gros Monti, FotolitoCTM.
L’attività principale di Zucchi è la realizzazione di bozzetti e manifesti pubblicitari e cinematografici per film muti dell’epoca prodotti principalmente dalla Società Anonima Ambrosio Film, compagnia di produzione cinematografica torinese, una delle prime in assoluto nella storia del cinema italiano, attiva nei primi decenni del XX secolo, produttrice di molti dei successi, anche internazionali, dell’epoca.
Dopo la seconda guerra mondiale il manifesto conosce una stagione di grande fermento, che successivamente, tuttavia sarà riconosciuto come il suo canto del cigno. Artisti di prima grandezza, appartenenti a diverse correnti artistiche come Pablo Picasso, Salvador Dalì, Henri Matisse(fino al 15 maggio a Palazzo Chiablese di Torino la mostra “Matisse e il suo tempo”) o lo statunitense Roy Lichtenstein si cimentano nella cartellonistica pubblicitaria prima che la diffusine della pubblicità televisiva, radiofonica ne snaturassero i contenuti e le tecniche.
Il manifesto come mezzo di comunicazione pubblicitaria naturalmente non cessa di esistere, ma la realizzazione grafica è nella maggior parte dei casi sostituita da immagini fotografiche, se si tralasciano, perché meriterebbero uno speciale dedicato la pop – art ed Andy Warhol.
In questo panorama un’ultima figura, tutta italiana, riesca ancora a distinguersi. È Armando Testa (Torino,1917–Torino,1992) [link a percorso], figura completa di artista e comunicatore pubblicitario, in grado di sintetizzare, all’insegna dell’ironia, televisione, grafica e fotografia. Tra le sue opere più conosciute le perfette geometrie della sfera sospesa sulla mezza sfera per l’aperitivo Punt e Mes, che in dialetto piemontese significa appunto “un punto e mezzo” (1960); i pupazzi conici di Caballero e Carmencita per il caffè Paulista di Lavazza (1965); gli sferici abitanti del pianeta Papalla per Philco (1966); Pippo l’ippopotamo azzurro per i pannolini Lines (1966-67).

Link alla mostra "Hecho en Cuba"
Link al percorso "Torino città del cinema e dalla pubblictà"